Con il boom di internet e lo sviluppo dei media stiamo assistendo allo sviluppo di nuove forme d’interazione e relazioni sociali, che stanno trasformando la tradizionale cultura alfabetica in cultura digitale.
Un mutamento epocale in cui cambiano le strutture relazionali, il lavoro, lo studio e la didattica; in cui la virtualizzazione delle dimensioni del tempo, dello spazio e dell’identità diventano elementi chiave di una riflessione che spinge a tracciare le linee guida di una vera e propria rivoluzione.
Una rivoluzione culturale: dall’Homo sapiens 1.0, all’Homo sapiens 2.0 (o Homo digitalis), di cui i giovani nati e formati alla fine del XX secolo fanno parte; quei giovani che vengono identificati con l’espressione di “nativi digitali”.
Traduzione di digital native, è stata coniata da Marc Prensky (www.marcprensky.com) per descrivere i nati dopo il 1980 (alcuni testi riportano anche 1996) che, per la loro età, hanno vissuto in un periodo dominato dalla tecnologia digitale.
I “nativi digitali” sono una generazione iper-connessa che navigano e condividono contenuti e saperi con i loro pari attraverso internet. Proprio come un sistema operativo multitasking, eseguono più programmi contemporaneamente: guardano la Tv con un Pc e, intanto, commentano con gli amici lo stesso programma che stanno guardando, collegati in chat, da luoghi fisici diversi. E tra un commento e l’altro fanno anche i compiti, a cui ognuno contribuisce mettendo in condivisione informazioni prese dalla rete, da Wikipedia, dai vocabolari online, ecc.
Si assiste così a un cambiamento nel modo stesso di “consumare” le relazioni sociali, a una nuova maniera di scrivere, che ha in realtà delle conseguenze profonde sulla comunicazione. Con internet come prima fonte d’informazione, nasce, un nuovo stile cognitivo e di apprendimento: il sapere diventa personalizzato, personificato e la conoscenza più individualizzata.
E allora, come stabilire un linguaggio comune con i nativi digitali?
Fondamentale in tutto ciò è la riorganizzazione della comunicazione, che deve obbligatoriamente diventare semplice, rapida, d’impatto e visuale, nonché la trasformazione della strategia dei mezzi attraverso cui si veicolano i messaggi.
I nativi digitali non ne vogliono proprio sapere del rapporto puramente mercificato con la marca, anzi, hanno imparato ad aggirarlo.
Non sono più degli spettatori imbambolati, ma dei veri e propri giudici, creatori attivi del contenuto mediatico (User Generated Content).
Consumare è diventato un atto di voto, di giudizio e di esecuzione quando serve.
Parlare con loro significa applicare nuove regole di marketing, in grado di offrire non più semplici prodotti o servizi, ma esperienze concrete: un assaggio reale del valore del prodotto e del brand, in grado di nutrirli di un immaginario ricco del quale hanno bisogno. Affamati di emozioni e essenzialità nello stesso tempo, immagazzinano solo quello che li sbalordisce e li fa ridere. Perciò, la marca che vuole lasciare il segno deve essere fonte di piacere e, soprattutto, deve saper stupire. Soprattutto, la marca che vuole rimanere in vita deve necessariamente rispondere con l’interazione, offrendo strumenti che favoriscono il dialogo. Inoltre, per sopravvivere alla velocità che caratterizza questo contesto, è importante essere capaci di creare messaggi in continua evoluzione. Il tempo che “i nativi digitali” dedicano ai contenuti è minimo, così la durata di vita del messaggio si accorcia inevitabilmente.
Se nell’era della cultura alfabetica per mantenere visibilità sul mercato bisognava correre, ora, nell’era della cultura digitale bisogna andare ancora più veloci.
Con questo segnale di modalità diversa di gestione del tempo, si aprono le porte a una grande sfida piena di responsabilità, che coinvolge noi immigranti digitali. Una sfida per cui è necessario prendere atto che i “nativi digitali” soffrono di gratificazione immediata: un dato che cambia le modalità di fruizione dei media, ma che ha delle conseguenze anche sulla vita reale.
[Stefania Giuseppetti per AZ Franchising]