Pubblicità: errori e opportunità


Il consumatore oggi è un esperto nell’uso delle tecniche di selezione per filtrare i messaggi che riceve. Un esame superficiale dei messaggi gli basta per decidere quali ascolterà ed elaborerà e quali ignorerà spietatamente”. [“Il nuovo libro della pubblicità – I segreti del mestiere” di Luis Bassat e Giancarlo Livraghi]

La linea di detersivi ecologici Atlas fa la sua comparsa sul mercato nel 1992. La pubblicità recitava “La forza del pulito, l’amore per l’ambiente”. La comunicazione esaltava le caratteristiche ecologiche del detersivo – con la presenza di tensioattivi ricavati da materie prime di origine vegetale, come la palma di cocco – e il packaging ecosostenibile – sui flaconi campeggiava la scritta “Fino al 50% di plastica in meno” – ma trascurava completamente l’efficacia del prodotto in termini di prestazioni funzionali. Eppure tutto ciò accadeva nonostante una ricerca, effettuata dalla Henkel stessa, dimostrava che l’80 per cento dei consumatori era disposto a rinunciare ad una perfetta pulizia della casa per aiutare l’ambiente.

In ogni caso, dietro la scomparsa di un prodotto c’è sempre una ragione.

Non è stato facile convincere che pulizia e candore non sono sinonimi. E poi, se è vero che vendere un valore è più difficile che vendere un benefit, bisogna essere sicuri che ci sia una nicchia di mercato pronta a seguire e a trainare le masse.

Dagli errori si impara; l’importante è non ingannare o danneggiare i consumatori, che sono pronti anche a perdonare e a dimenticare.

Quando la Schweppes, bibita britannica e marchio storico internazionale presente in Italia dal 1959, lanciò per la sua acqua tonica una campagna promozionale con lo slogan “tonic water”, non aveva considerato che nel nostro Paese la parola “water” è associata alla parola “bagno”. La società corse subito ai ripari cambiando la dicitura sulle bottiglie con “Schweppes Tonica”.

Gli errori più comuni derivano proprio dalla scelta di vocaboli sbagliati.

Una delle fasi principali nello studio di una strategia è quella che riguarda la scelta del nome per nuovi prodotti e servizi da lanciare sul mercato. Insieme al marchio, espressione visuale, il nome diventa attività strategica e deve evocare, ispirare, comunicare e generare il ricordo.

Quando si parla di “naming”, qualsiasi distrazione può costare cara.

Il Mitsubishi Pajero è un fuoristrada prodotto dall’azienda nipponica Mitsubishi Motors Corporation fin dal 1982. In America e in tutti i paesi ispanici l’auto ha preso il nome Mitsubishi Montero, perché difficilmente qualcuno lo avrebbe comprato, visto che “pajero” – in Argentina il verbo “pajar”, che indica l’azione di fare avanti e indietro con il carrello di una pistola per caricarla, passa metaforicamente a significare la masturbazione maschile – è una parola volgare.

Un nome di successo non è detto che debba per forza richiamare concetti piacevoli. Ad esempio, restando nel tema dei motori, non mancano i riferimenti alle tempeste (V Storm, della Suzuki), ai tifoni (Typhoon di Gilera), o ai maremoti.

Toyota aveva deciso di chiamare Tsunami una versione speciale della Celica. Ma per un terribile scherzo della sorte, nel gennaio del 2005 quando tutto era pronto per il lancio del nuovo coupé, materiali di comunicazione, depliant e pagine web furono “polverizzate” e cancellate a tempo di record. La macchina era già stata presentata alla rete di vendita per essere commercializzata sul mercato canadese e, se il test commerciale avesse dato i suoi frutti, successivamente anche in Europa. Per rispetto alle migliaia di vittime del maremoto del sud est asiatico, tutte le vetture furono richiamate e non sono mai più andate sul mercato.

Spesso un’immagine vale più di mille parole. Tropicana, azienda presente in 70 Paesi del mondo e dal 2006 anche in Italia, che da oltre 65 anni produce succhi di frutta, è solita pubblicizzare che i suoi prodotti vengono realizzati esclusivamente dalla spremitura della miglior frutta al 100%, senza aggiunta di acqua, zuccheri, coloranti o conservanti. Il packaging, che offriva l’idea di un prodotto assolutamente genuino tanto da essere illustrato con un’arancia e una cannuccia conficcata dentro per gustarne il succo, venne sottoposto a un restyling (realizzato da parte di Arnell Group). Il risultato del nuovo design – più essenziale, senza identità, con l’idea di un prodotto più “lavorato” e poco diverso dalla concorrenza – causò in poco tempo una pericolosa marcia indietro, con conseguente crollo del 20% nelle vendite e una perdita stimata di oltre 100 milioni di dollari. Il packaging originale fu immediatamente ripristinato.

A volte per superare le difficoltà a prima vista insolvibili, basta affrontarle in modo creativo, rovesciando la negatività in positività. Perché, ogni crisi può favorire l’innovazione e aprire nuove opportunità.

Era l’anno 1974 quando, nel Minnesota, la 3M, nota azienda internazionale, impegnò ingenti somme di denaro per trovare la formula di un collante ad altissimo potere per speciali usi industriali: doveva essere una sostanza capace di non scollarsi per nessun motivo. Per una strana serie di reazioni chimiche venne fuori invece un collante debolissimo che, casualmente venne tra le mani di un ricercatore il quale, per evitare alla moglie di rovinare la tinta delle pareti attaccando biglietti in cucina con il nastro adesivo, ne versò alcune gocce dietro ad un foglietto. Il foglietto si attaccava, ma poi si poteva staccare facilmente. Usò lo stesso collante per tenere fermi gli spartiti durante i suoi concerti nel coro di S. Paul, e tutto il coro lo volle imitare.

Sorpreso del successo che quel “collante che non incollava” aveva ricevuto, ne parlò in azienda. Da quel momento… chi non conosce i Post It? Il blocchetto dai foglietti colorati riposizionabili, che aderiscono a tutte le superfici e si possono staccare senza lasciare traccia. Ancora oggi rappresenta una delle fonti di maggior reddito per la 3M che lo produce.

 

[Stefania Giuseppetti per AZ Franchising]